SOGNO O REALTA'? Il primo capitolo di "CHE BELLA COMPAGNIA".
Il primo capitolo di Che Bella Compagnia, l' ho scritto tre anni prima di iniziare a lavorare seriamente al manoscritto. La mia idea era di creare due storie completamente parallele, che non si intrecciavano mai, fino alla fine, anche se strettamente collegate tra loro.
Quando poi ho iniziato a scrivere "Che Bella Compagnia", ho pensato ad una collocazione diversa, ad un inserto nella storia, che potesse lasciare quantomeno un dubbio su chi fosse il protagonista di quel capitolo.
E' una collocazione senza tempo, il protagonista non ha un nome, ed anche alla fine, quando le carte sembrano essere scoperte, per i lettori più attenti potrebbe nascondersi una diversa chiave di lettura.
CHE BELLA COMPAGNIA
I CAPITOLO (Sogno o Realtà - I PARTE)
Che sogno incredibile!
Tremendo!
Avete presente quando ci si sveglia di colpo con un senso di sollievo difficilmente descrivibile?
I battiti del cuore a poco a poco rallentano, riprendono il loro ritmo, si cercano conferme rispetto alla realtà.
Io per esempio controllo il telefono, guardo l’ora, cerco di ricordarmi il più rapidamente possibile i prossimi appuntamenti, cerco qualcuno accanto a me.
Un respiro profondo, e poi il bisogno di ricordare il sogno, l’ incubo.
A differenza dei bei sogni, con i quali spesso rimango a lottare per minuti, non riuscendo a ricordarne i particolari, gli incubi, mi lasciano tracce indelebili che permettono di ricostruire tutto, come la scena di un film.
Sono in una stanza di ospedale, lo posso capire dai suoni e dall’odore di disinfettante ed ammoniaca.
Non è un ospedale convenzionale, ha qualcosa di strano.
Il mobilio per esempio, sembra appartenere ad una stanza d’ albergo.
Colori scuri, il noce dell’ armadio a fianco, ha un aspetto piacevole, e se non fosse per l’odore di ammoniaca, potrei apprezzarne il profumo.
Le pareti addirittura, sono dipinte con colori tenui, quella davanti a me è di un giallino garbato, tendente al beige, e posso intravvedere, nel corridoio, un grigio tortora perfino rilassante.
Non ci sono molti macchinari, anzi, a guardare bene, a poco a poco, riuscendo a prenderne coscienza, sento soltanto un ago nel braccio destro, e alzando lo sguardo, vedo un' unica flebo appesa.
All’interno, un liquido trasparente, ma non riesco a leggere cosa c’è scritto sulla sacca.
Sono sola in stanza, e non sembra un caso.
Secondo me è davvero una stanza singola, e sulla sinistra, non posso crederci, un televisore che sarà almeno trenta pollici.
E’ posizionato su un mobile a cassettiera fatto nella stessa essenza dell’armadio, e adesso, che muovo lo sguardo a sinistra, vedo anche il comodino, ovviamente identico per materiali e qualità.
Se poi, come sembrerebbe, dietro la porta che sta poco davanti alla tv verso il corridoio, ci fosse anche il bagno in camera, davvero, potrei pensare di essere in hotel.
Improvvisamente, mi rendo conto di non aver sentito alcuna voce, non posso esser certo dei brusii sentiti in precedenza, non saprei distinguerne le parole.
Ma certo, che stupida!
Potrei non essere in Italia, magari sono in Svizzera, e forse li, gli ospedali sono fatti in questo modo.
O forse, è molto più semplicemente uno di quei casi, in cui la nostra ottima sanità ,si sposa con una struttura moderna e all’avanguardia.
In realtà, non è tanto la modernità, gli arredi di gusto e il televisore a colpirmi, quanto il senso estremo di pace e tranquillità.
Non è comune a un ospedale.
Lo so bene, in reparto, alle cinque del mattino, la vita ha già i ritmi dell’ora di punta, anzi, spesso è l’ora di punta.
Si sentono carrelli, voci, penne che scansionano codici per la terapia, lamenti di qualche paziente capriccioso.
Qui non sento niente di tutto questo, e non lo percepisco.
Nonostante questo, sono certa di essere in ospedale. E non per il segno evidente della flebo, o perché improvvisamente me ne sia ricordata, ma più semplicemente, mi rendo conto che non potrei essere da nessun altra parte.
Capisco che non sto bene, non sto soffrendo, non sento dolore, ma credo che non potrei muovermi, non agevolmente almeno.
Mi sento quasi intrappolata nel mio corpo, come una donna che può spiare da una serratura, ma non può farsi sentire nè vedere, riesce solo ad osservare.
Ecco, la mia serratura sono i miei occhi.
Forse avrei difficolta anche a parlare, lo sento, faccio anche molta fatica a deglutire.
Dovrò provarci prima o poi.
Arriverà qualcuno tra poco, almeno lo spero, altrimenti dovrei tentar di chiamare.
Ma certo! Il campanello! Se sono in un ospedale, dovrà pur esserci una chiamata per gli infermieri.
Alzo lo sguardo, e almeno provo a scrutarne la presenza.
Non è possibile.
Leggermente alla sinistra del mio letto, non più in alto di mezzo metro, vedo chiaramente i tre attacchi di ordinanza per ossigeno, aria compressa ed aspirazione.
Almeno ora, ho la certezza di essere in un ospedale.
Ma non c’è altro, non c’è una parete attrezzata, un testa-letto.
Sono ancora più confusa.
Come un suono che arriva da lontano, comincio a percepire un trillo leggero, all’inizio simile a una vibrazione , ora comincia a farsi sentire più forte.
Arriva da un cassetto del comodino.
Un telefono.
La mente, in pochi secondi, ha già compiuto tutte le azioni necessarie, balzo di lato, il braccio destro che si allunga verso il comodino, apro il cassetto, e finalmente posso prendere il telefono per scoprire ogni mistero.
La mente dicevo, io però, non mi sono mossa.
Non riesco.
Non mi provoca sofferenza, fastidio o ansia.
Sono rilassata, forse rassegnata. Sembro consapevole che non posso farlo.
Pensando al telefono però, mi viene in mente come dovrebbe esserci, per forza, una presa per poterlo caricare, cosi come dovrà esserci collegata anche l’abatjour, che noto adesso sul comodino.
Penserò dopo a quanto sia strana anche questa presenza, in una stanza di ospedale, ora sono impegnata a seguire il mio pensiero, a collegare i puntini che lavorano e si uniscono come in una moviola.
Ma si, potrebbe essere, forse il campanello è proprio collegato li, in una cassetta incassata nel muro, forse c’è un pulsante, un interruttore.
Devo provarci.
A fatica riesco a girarmi su un fianco.
Sento la testa girare e la vista mi pare subito annebbiata.
Faccio un respiro profondo, e rimango qualche secondo ferma, nella speranza di abituarmi alla posizione.
Dopo poco, le immagini cominciano a farsi più nitide, ed eccola li.
A sinistra del comodino, verso di me, ad una trentina di centimetri da terra, posso vedere la presa di corrente, e alzando ancora lo sguardo di quasi mezzo metro, trovo un’ altra cassetta, con un pulsante. Vicino al pulsante, nella stessa cassetta, c’è un tappo cieco, forato, dal quale esce un semplice cavo bianco, che scende verso il pavimento.
Eccolo, dev’essere la chiamata per gli infermieri.
Provo ad allungarmi verso il pulsante, ma nel momento in cui cerco di spingermi fino a raggiungerlo, inavvertitamente, il mio corpo già sull’ orlo del letto, decide di provare in modo pratico ed efficace gli effetti della gravità.
Bum.
Riapro gli occhi dopo pochi secondi, non mi sono accorta di nulla, tutto è successo in un attimo.
Ho la sensazione di non aver aggravato la mia condizione, non sento dolore, non sono costretta da nulla, semplicemente mi trovo stesa su di un fianco, per terra.
Non ne sono sicura, ma nonostante il tuffo, credo di esser riuscita a spingere il pulsante e non essermi sfilata l’ago della flebo.
Saranno passati almeno un paio di minuti ormai, ma non si vede nessuno.
Non è cosi strano, può capitare che gli infermieri siano impegnati con altri pazienti, magari in situazioni gravi, o potrebbero essere più semplicemente, a prendere un caffè.
Aspetto.
Nell’attesa provo a guardarmi intorno, cerco di capire.
Le tende alla finestra, grigio cenere, non mi lasciano vedere oltre, anche se mi pare di vedere uno spicchio di vetro, nero.
Potrebbe essere sera, notte, o forse prima mattina.
Nella stanza non c’è un orologio.
Quanto sono stupida.
Solo adesso, mi rendo conto della luce principale accesa. Ne sono certa, prima era spenta, ve ne era una fioca, soffusa. Evidentemente, il pulsante l’ho schiacciato davvero, ma quello sbagliato.
Alzando lo sguardo, vedo il filo bianco notato in precedenza, posso vedere che una volta arrivato a terra, risale verso il letto ed entra sotto il cuscino.
Scommetterei qualsiasi cosa sul fatto che collegato a quel cavo, ci sia il campanello di chiamata.
E lo avevo proprio sotto la testa.
Che stupida.
Adesso però, in queste condizioni, non riuscirei mai ad arrivarci.
Non so quanto tempo sia passato, ma sento avvicinarsi qualcuno.
I passi sono sempre piu’ vicini, poi di colpo si bloccano.
Passano pochi, lunghissimi istanti, e sento la prima voce, quasi stridula.
<E’ caduta, veloci! Marco, Giulia, subito nella gialla!>
Penso che la gialla, sia il nome dato alla stanza, ma non ho un nome? Sono diventata quella della stanza gialla? Mah, forse è per via della delicatissima legge sulla privacy.
In pochi secondi sento i passi avvicinarsi, prima due, poi quattro, sei, forse c’è addirittura una quarta persona.
<Ok, tu tieni una mano a sinistra, sotto la spalla.>
<Attenta, fate appoggiare la testa al braccio e al tre solleviamo.>
<Ci siete?>
<Si> lo esclamano come un coro di operetta.
Non riesco ad accorgermi del passaggio, non ho sentito uno, due e tre.
Mi sono ritrovata su letto.
Sono in quattro.
Almeno mi sembra, di nuovo la testa gira, non riesco a mettere a fuoco.
Intravedo e posso sentire, i gesti decisi e capaci, nel sistemarmi il lenzuolo.
Avevo freddo a terra, ora mi sto riprendendo.
E cominciano perfino a schiarirsi le immagini.
L’infermiera, non so se sia chi ha dato l’allarme, è proprio sopra il mio viso.
Mi sta guardando, sta sorridendo dolcemente.
Vuole capire se ci sono, se sto bene.
Io però, abbasso lo sguardo, e incrocio il suo cartellino di riconoscimento.
In un secondo ho capito tutto.
So dove sono, e non sono in svizzera, posso capire o meglio immaginare, il perché sono li, posso anche comprendere fino in fondo, perché questo, si, è un ospedale, ma non convenzionale.
Leggendo quello che ho davanti, non sono piu’ io, sono improvvisamente in un'altra dimensione, tutto sta tornando alla memoria.
No, no… non posso svegliarmi adesso, non capisco.
A poco a poco, la luce si sta spegnendo, il buco della serratura si sta ostruendo sempre piu’.
Ormai posso solo vedere il tesserino, al centro, nitido.
MARTA FERRI
Operatrice Sanitaria
S.S. Hospice -Cure Palliative
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